Affascinante. Fashion. Iconico. Ma anche intelligente, tecnico e tattico. Per descrivere David Robert Joseph Beckham, non basterebbero cento, forse mille, aggettivi: l’errore più frequente che si commette parlando dell’attuale presidente dell’Inter Miami, è quello di anteporre ciò che ha rappresentato/rappresenta nel mondo esterno a quello espresso sul terreno di gioco. Facile parlare della bellezza o dei tatuaggi, delle ville o dei denari. Banale. Riduttivo.

Qui nasce il “concetto di invidia”, tema talvolta dozzinale che in questo caso specifico però, riesce a spiegare al meglio l’ostracismo spesso mostrato dai media nei suoi confronti; il termine “Spice boy” è solo l’apice di un attacco frequente da parte di chi non ha mai capito (o fatto finta di capire) il suo successo. Uno che ha commesso i suoi errori (come ogni essere umano) e li ha pagati. Senza sconti.
Perchè David Beckham è stato prima di tutto un calciatore. Un Signor, calciatore. Uno che a dieci anni è entrato nella scuola per giovani talenti di Bobby Charlton a Manchester, che a ventuno ha scelto di indossare la maglia numero 7 dei Red Devils (appartenuta sino alla stagione precedente ad un certo Eric Cantona). Uno, che con quella maglia, ha incusso timore ai team di tutto il mondo, partecipando alla scrittura di qualcosa di molto vicino ad un egemonia.
Prima della rottura con Sir Alex (“Ho lavorato con solo quattro fenomeni: Cantona, Giggs, Scholes, Ronaldo)e di iniziare a girare il mondo: Madrid, Los Angeles, Milano, Parigi. Meno vittorie, ma la solita classe, abbinata ad una indiscutibile professionalità.
Per taluni sarà sempre “un prodotto o semplicemente marketing”, la realtà è che David ha lasciato un segno su quei campi percorsi per oltri trenta anni. Cercatelo, nel panorama mondiale degli ultimi tre decenni, un piede destro così elegante, in grado di regalare suono ed anima a quelle traiettorie. David Beckham paga, e pagherà una sola grande colpa: quella di piacere a tutti.
Pierluigi Cuttica