Il piacere di segnare un gol è noto, ma io provo lo stesso piacere nel passaggio. È come risolvere un puzzle. Ho sempre avuto un’immagine nella mia testa, di come vorrei vedere andare le cose due o tre secondi dopo. Potevo calcolarlo. Vi è un piacere indescrivibile nel fare qualcosa che gli altri non potranno mai vedere. Di calciatori forti, ne abbiamo visti, e altrettanti ne vedremo.
Quando ci imbattiamo in un artista, invece, dovremmo riflettere sulla fortuna di averlo visto in opera.
Chi scrive, e alcuni/molti che leggeranno, hanno avuto tale privilegio: vedere giocare a pallone Dennis Nicolaas Bergkamp. Può sembrare una esagerazione. Ma non lo è. Bergkamp è stato qualcosa di diverso, di esclusivo e peculiare nel ventennio trascorso sui campi da gioco: arco di tempo in cui ha disegnato calcio alla sua maniera, con quella grazia ed eleganza, racchiuse in un corpo magicamente danzante e leggiadro nel suo 1.83 di altezza.

Un talento purissimo, un destino da predestinato (espresso sin dalle giovanili con i lancieri), ma non accessibile a tutti: come il calcio italico che, nei due anni nella MIlano nerazzurra, stentò ad abbracciarne l’essenza ed il verbo, fino a lasciarlo andare nella terra del football, in quella “Londra Gunners” che, con la sua figura e quella di Arsene Wenger, diede inizio ad una vera e propria “rivoluzione estetica”.
“La rinascita dell’Arsenal, da un punto di vista stilistico, è iniziata con Bergkamp. E’ stato lui a suonare la prima nota della nuova orchestra. Era l’oboista, che con intonazione perfetta, faceva suonare bene ogni altro musicista della squadra” (tratto da “Invincible”, libro dedicato a quel formidabile Arsenal).
E se per ogni artista vi è una opera che ne segna il percorso, che ne esalta creatività e magnificenza, quella di Bergkamp può avere solo un luogo ed una data: 2 marzo 2002. St James’ Park. “La rete”. Il capolavoro di un “artista prestato al pallone”
Pierluigi Cuttica